Ho ricevuto il premio più bello della mia carriera: quello di una giuria di detenuti.
L'ultimo popolo senza smartphone mi aspetta nel suo monastero attorniato da mura di cinta. Il cielo nel cortile arriva fino a terra e non ha nulla di fraterno. Se la Profezia di Pratomagno si avverasse, gli uomini dietro queste sbarre sarebbero i primi ad affogare.
Il regno del pensiero e del silenzio: il carcere. Sono dentro. Un gioco di potere sfuggito di mano ai secoli, al buonsenso delle generazioni dei distratti, ha reso tutto ciò reale.
Me ne rendo conto solo ora: la legge è l'incomunicabilità tra i padri e figli - ma ora preferisco guardare che pensare. Ogni sbarra è un rimprovero immeritato, ogni lastra di vetro infrangibile un segreto inconfessato, i pavimenti lucidi sono sorrisi falsi, il sole caliginoso che filtra di lato è il bruciore del perdono negato.
Dopo l'ennesimo corridoio (quanti ne ho attraversati? Quanti generosi architetti, quanti studi di ingegneri, quanti poveri fabbri hanno messo mano alla reggia del silenzio?), un buio improvviso: un cinema. La platea fuga ogni angoscia: i vagabondi delle stelle sono vivi e sono qui ad accogliermi.
Solo i bambini sono nella condizione di poter guardare un film con la concentrazione di un carcerato. A entrambi non è dato distrarsi.
Esco a metà della proiezione per mettermi di nuovo alla prova, ma il corridoio è ancora più angosciate di prima. Una lepre stanca nel cortile si ripara all'ombra di una panchina nel sole tumefatto. Non c'è scampo lontano dalla compagnia di questi uomini.
Il dibattito è latte e miele. Il candore di Alberto e Suleiman a queste paia di occhi richiama la fine della paura di cui ci stanno liberando stando qui dentro. Uno mi chiede come si arriva sul monte Pratomagno: lo vedo strizzare gli occhi ad ogni scorcio di paesaggio che la spiegazione gli accende in testa. Altri fanno lo stesso.
Mentre vado via mi rendo conto che questa è l'unica domanda che ho ricevuto: per il resto (un'ora? Due? Qui non ci sono orologi) ho preso a mani basse, saccheggiato il senso intrappolato in osservazioni altrimenti irripetibili, senza eco nel mondo.
Un uomo può impiegare mesi, anni o ergastoli a dire una sola cosa bella, e quindi giusta, ma poi nulla al mondo sarà più uguale a prima.
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